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26 Aprile, 2024

Mezzogiorno, “colonia estrattiva” senza rappresentanza. Che fare?



Di qui nacque che tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno”.

(Niccolò Machiavelli, Il Principe)

Nelle settimane decisive per l’eventuale firma delle Intese Governo-Regioni sull’autonomia differenziata, il problema della totale mancanza di rappresentanza politica del Mezzogiorno rimane drammaticamente aperto, soprattutto se lo si raffronta alla sovrarappresentazione dei territori settentrionali grazie all’esistenza del “Grande Partito Trasversale del Nord”, che, nel solo triennio 2014/2016, grazie al “trucchetto” della spesa storica, non solo ha drenato dalle regioni meridionali verso quelle settentrionali la “modica” cifra di 183 miliardi di euro di spesa pubblica allargata, soldi che, come hanno dimostrato i Rapporti della SVIMEZ e il Quotidiano del Sud, oltre a finanziare l’istruzione, i trasporti, i servizi sanitari e quelli assistenziali, hanno alimentato nel “virtuoso” e “laborioso” Nord anche un vasto circuito affaristico-clientelare ed in alcuni casi persino criminale, ma, in deroga al vincolo del 34%, dal 2007 al 2017 ha sottratto al Sud anche 25 miliardi di investimenti pubblici produttivi. Un’altra espropriazione indebita che è costato al Mezzogiorno una mancata crescita del Pil del 5%, corrispondenti a 300 mila posti di lavoro in meno.

Dunque, il Meridione non solo è stato abbandonato e cancellato dall’agenda politica nazionale, ma, proprio a causa di questo processo di “de-soggettivazione”, è divenuto “oggetto” di reiterati saccheggi tramite l’attuazione sia di “politiche differenziate” sia di meccanismi fiscali “estrattivi”, che, di fatto, a “Costituzione rovesciata”, lo hanno ridotto alla condizione di “colonia” da razziare. Condizione che si intenderebbe istituzionalizzare definitivamente tramite l’approvazione dell’autonomia regionale differenziata, per consentire alla “locomotiva” settentrionale di agganciarsi al resto d’Europa.

Si tratta di una vera e propria rottura del “patto sociale” di coesione sociale e solidarietà nazionale sancito, dopo la Seconda guerra mondiale, con la parte più arretrata del Paese grazie alla Costituzione repubblicana del 1948. Patto culminato nella fondazione della Cassa per il Mezzogiorno (1950-1984), che, tra aspetti positivi e negativi, ha contribuito nel corso del “trentennio d’oro” del “capitalismo maturo” ad attenuare e in alcuni casi ad eliminare il dualismo Nord/Sud. Dualismo che negli ultimi due decenni circa, in coincidenza con la riforma del Titolo V della Costituzione (2001), da cui sono stati eliminati i riferimenti al Mezzogiorno, si sta accentuando maggiormente sia per quanto concerne gli indicatori economici sia per quanto concerne quelli relativi al “capitale sociale”.

Ora, nell’età della globalizzazione turbo-capitalista, delle “due destre” di revelliana memoria, dell’egemonia pervasiva del “pensiero unico” neoliberista, incentrato sui dogmi del mercato, della competizione e dell’individualismo, chi “riprenderà e rialzerà la bandiera del Sud?” Quale sforza politica ne rappresenterà le legittime istanze di uguaglianza, sviluppo, coesione, equità e perequazione sociale?

Per sollecitare delle prese di posizione, a queste domande, idealmente, si collega il responsabile dei temi Università, Scuola e Cultura della Segreteria regionale di Art. 1 Mdp Campania, Giuliano Laccetti, che, nel suo articolo “Tempo di dire no. Pericoli e richieste eversive del regionalismo differenziato”, sostiene che “quella del regionalismo differenziato può essere per la sinistra, per Articolo Uno, ‘la madre di tutte le battaglie’, a patto che si abbandonino atteggiamenti timidi o attendisti o addirittura possibilisti. Unità e coesione nazionale NON possono essere sottoposte a “discussioni”.

Tuttavia, dopo la denuncia del piano eversivo delle “tre regioni secessioniste”, la confutazione di alcuni capisaldi del “teorema meridionale” e la critica dei meccanismi “estrattivi” del federalismo fiscale, lo stesso Laccetti, ordinario di Informatica presso la Federico II, nel chiedersi se “questo egoismo collettivo dei ricchi, si nasconda anche a sinistra”, senza mezzi termini osserva che:

“Le dichiarazioni della deputata veronese Pd, Alessia Rotta, che attacca da destra Zaia; la posizione, per certi aspetti inattesa e incomprensibile dal mio punto di vista, di timidezza (o peggio) anche da parte nostra, di Articolo Uno, che in molti suoi anche autorevoli dirigenti, vede una posizione ‘No all’autonomia come proposta dalla Lega, però…’;  l’improvvida posizione del M5S, ingenuamente convinto, nel migliore dei casi, che, appaltando alla Lega questo argomento, potrà trarne vantaggio su altri; le contraddizioni nei sindacati confederali e in altre forze di sinistra (i “nordisti” sono prima di tutto nordisti, solo poi progressisti, democratici, sindacalisti); nonostante prese di posizioni contro il regionalismo differenziato di alcuni sindaci (Sala, Merola); tutto questo fa temere che anche a sinistra qualcosa non torni. Si scontrano due linee: riduzione del danno, cercare di non perdere consensi e radicamento nei territori del Nord; contrapposizione ideale e decisa su di un tema così delicato”.

Ma se “i “nordisti” sono prima di tutto nordisti, solo poi progressisti, democratici, sindacalisti”, quali condizioni socio-politico-culturali ci sono a che la Sinistra abbandoni gli “atteggiamenti timidi o attendisti o addirittura possibilisti” per fare dell’opposizione al regionalismo differenziato “la madre di tutte le battaglie”? E perché nel Settentrione prima di essere “progressisti”, “democratici” e “sindacalisti” ci si percepisce “prima di tutto” come “nordisti”, mentre nel Sud questo non accade?

Innanzitutto, non ci si dimentichi che nel campo della Sinistra progressista l’“atteggiamento” del PD sia rispetto alla “perversa attuazione del federalismo fiscale” sia rispetto al “colpo di Stato dei ricchi” non è stato e non è ancora oggi quello di semplice “timidezza”, “attendismo” o “possibilismo”, in quanto lo stesso PD ha ricoperto e tuttora ricopre un ruolo da attore protagonista nella rimozione del Sud e nella sua consequenziale e sempre più chiara, netta e conclamata riduzione a “colonia estrattiva” di risorse finanziarie ed umane.

Infatti, non solo per meri calcoli elettoralistici nel 2001 il PD ha varato la riforma del Titolo V della Costituzione Italiana, riforma, ha osservato il costituzionalista Giuseppe Tesauro, “fatta in notturna, alquanto frettolosamente”; non solo tra il 2014 ed il 2018 – Governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha avviato il federalismo fiscale “estrattivo”, che, alla stregua di un “Robin Hood alla rovescia”, ruba ai poveri per dare ai ricchi; non solo a quattro giorni dalle elezioni politiche il Governo Gentiloni ha firmato le Pre-Intese con le tre Regioni “sovversive”, ma una di queste, l’Emilia Romagna, è guidata dal Presidente del PD Stefano Bonaccini.

Come ha osservato il costituzionalista Massimo Villone, chiedendosi il perché della stipula delle Pre-Intese da parte del Governo Gentiloni in carica per il solo “disbrigo degli affari correnti”:

“L’unica ragione plausibile è che ci sia al fondo un disegno politico condiviso dalle parti contraenti, e quindi sostanzialmente dal centrodestra e specificamente dalla Lega da un lato, e dal PD dall’altro. Un disegno volto a sovvertire radicalmente l’architettura costituzionale, abbandonando l’obiettivo di una riduzione del divario strutturale Nord-Sud, e sostituendolo con quello di consolidare il divario abbandonando al suo destino la parte debole del paese. Liberare la locomotiva del Nord dal peso dei vagoni più lenti, per favorirne l’aggancio all’Europa e la competitività nel mondo globalizzato. Un disegno radicalmente incostituzionale, per tutto ciò che comporta in danno dei principi di solidarietà, perequazione, eguaglianza dei diritti”.

Dunque, il PD è uno dei principali tasselli del “Grande Partito Trasversale del Nord”, alla pari di Forza Italia e della Lega salviniana, così come lo è la componente settentrionale del M5S, che, dopo le elezioni europee, per bocca del suo deputato milanese Stefano Buffagna, reclama l’attuazione dell’autonomia differenziata.

Allora, bisogna chiedersi perché tutte le forze politiche nazionali, pur essendo radicate elettoralmente anche nel Mezzogiorno, lo hanno subordinato in modo crescente alle logiche colonialiste di continua, intensa e sistematica “estrazione” di risorse finanziarie ed umane per salvare la “locomotiva” nordista.

Sul piano politico si deve osservare che la presenza di un forte partito territoriale, quale è stato ed è ancora oggi la Lega, ha egemonizzato il quadro politico nazionale, spingendo le altre organizzazioni a rincorrerle sul suo terreno: la centralità della “questione settentrionale” e la rimozione di quella meridionale.

Mentre sul piano socio-economico non ci si può non domandare se gli ingenti miliardi di spesa pubblica allargata, d’investimenti produttivi sia statali che privati non abbiano contribuito a creare delle condizioni “materiali” che fanno sì che un blocco sociale trasversale – lavoratori, precari, pensionati, imprenditori e ceti colti, compresi quelli accademici – richieda di essere ulteriormente valorizzato e tutelato rispetto al Sud “fannullone”, “sprecone” ed “assistito” attraverso una declinazione in chiave territoriale delle logiche della competizione neo-liberista. Come ha osservato Villone il disegno anticostituzionale di staccare la parte “produttiva” del Paese da quella “improduttiva”:

‘A distanza di molti mesi, lo troviamo confermato ed esplicitato in due articoli, pubblicati sul Foglio del 4 e del 7 maggio 2019. Nel primo Guido Tabellini scrive: ‘Le politiche più efficaci per avvicinare l’Italia all’Europa sono anche quelle che aumentano la distanza tra Milano e Napoli, tra aree avanzate e arretrate del Paese’. Tabellini non è un quivis de populo. Ex rettore della Bocconi, studi e insegnamento all’estero, tra i 35 saggi di Letta per le riforme istituzionali, ministro dell’economia in pectore nel mai nato governo Cottarelli – in cui avrebbe preso il posto di Savona – e altro ancora. Una perfetta espressione dell’establishment. Il 7 maggio sullo stesso giornale Pier Carlo Padoan, predecessore di Tria per 4 anni nei governi Renzi e Gentiloni, commenta Tabellini e la legge di bilancio gialloverde. Padoan accetta in premessa che ‘la crescita del Paese è trainata dalla crescita del nord, ma questa avviene a scapito della crescita del sud’. L’effetto negativo si può evitare, ma è molto difficile, e dipenderà dalla disponibilità da parte delle regioni”.

Inoltre, sul piano precipuamente culturale della costruzione e della trasmissione capillare delle rappresentazioni ideologiche che riguardano il recupero e la rielaborazione di atavici pregiudizi antimeridionali, ci si deve interrogare sulla forza che queste hanno avuto nel “manipolare i territori” del “profondo nord”, rendendoli coesi dal punto di vista di una costruzione identitaria che fa leva sulla contrapposizione tra “le due Italie”: l’Italia “virtuosa”, “laboriosa” e “meritevole” del Nord e quella, invece, “fannullona”, “oziosa” e “sprecona” del Sud. La prima da premiare e la seconda da punire secondo una logica neo-liberista declinata nei termini “padani” della superiorità territoriale e culturale se non addirittura razziale, come fanno intendere sia le dichiarazioni del Governatore del Veneto, Luca Zaia, sia quelle del direttore di Libero, Pietro Senaldi.    

Dunque, per potere controbilanciare la forza della Lega Nord, mascherata da Lega nazionale, e soprattutto per mettere in discussione l’egemonia del “leghismo” concretizzatosi nel “Grande Partito Trasversale del Nord”, non sarebbe opportuno iniziare a ragionare sulla costruzione di un soggetto politico meridionale e meridionalista di orientamento democratico, radicale, ecologista, antirazzista, antifascista ed antiliberista, che rappresenti le istanze, i bisogni ed i diritti disattesi del Mezzogiorno? Di un soggetto politico che, rimettendo al centro del dibattito politico nazionale ed europeo il dualismo Nord/Sud, lotti senza quartiere per l’uguaglianza, la perequazione, l’equità e la giustizia e la coesione sociale?

Senza un’adeguata sponda politica chi raccoglierà l’appello che i Sindacati confederali si apprestano a lanciare il 22 giugno da Reggio Calabria per un “grande piano Marshall” che riscatti il Mezzogiorno?

Per essere combattuta, “la madre di tutte le battaglie” ha bisogno di “eserciti”. Il Nord ha dalla sua parte tutte le “forze armate” schierate in campo – sistema politico, economico-finanziario, socio-culturale, mediatico – ma, tranne validi gruppi meridionalisti di vario orientamento politico-culturale accumunati dalla mobilitazione contro il “colpo di Stato dei ricchi”, a cui si associano le prime prese di posizione dei Sindacati, il Mezzogiorno, come accade alle “colonie”, ne è privo e se è vero che sia “molto meglio, come diceva Keynes, avere all’incirca ragione, piuttosto che precisamente torto”, allora è anche vero che, come ci ha insegnato Machiavelli, che i “profeti” per potersi mettere nella condizione di vincere, “avere all’incirca ragione” devono essere “armati” e non “disarmati”. Ossia, fuori metafora, devono avvalersi della forza della mobilitazione popolare e della rappresentanza politica e non solo della “moral suasion”, che mentre sul piano culturale fece di Pasquale Villari il grande fondatore del meridionalismo, su quello politico, invece, ne provocò la sconfitta.

In conclusione, il Mezzogiorno soffre di un drammatico deficit di rappresentanza che, a partire da altre “sponde” politiche, già si pensa di colmare o preannunciando la presentazione di una lista neo-borbonica per le elezioni regionali campane del 2020 o impegnandosi per la raccolta delle firme a favore di un referendum sull’istituzione di una Macroregione Sud. E la sinistra meridionalista cosa risponde? Pensiamoci!

15/06/2019

Salvatore Lucchese – Co-coordinatore del Comitato Meridionalista dell’Area Vesuviana “Gaetano Salvemini” e ricercatore presso il Centro di Ricerca Internazionale Francesco Saverio Nitti per il Mediterraneo.



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