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29 Aprile, 2024

Boccia: “L’autonomia differenziata è scolpita nella Costituzione”. In realtà, lo Stato la “può” attribuire, ma non è costretto a farlo, soprattutto quando le sue richieste sono “in irrimediabile contrasto con il quadro costituzionale”



Nel commentare sulla sua pagina facebook personale le foto dell’intervento da lui tenuto sabato 29 febbraio presso la sede di Barletta dell’Associazione Dirigenti delle Istituzioni Scolastiche Autonome (ADISA), il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, il dem Francesco Boccia, ha scritto: “L’autonomia differenziata è scolpita nella Costituzione, non facciamo più l’errore di dire ‘io sono contro l’autonomia’ perché significa essere contro la Costituzione”.

Dunque, stando al sillogismo di Boccia, eminenti costituzionalisti, quali, tra gli altri, Massimo Villone, Sandro Staiano e Giuseppe Bertagna, autorevoli economisti, come Gianfranco Viesti ed Adriano Giannola, validi giornalisti, alla stregua di Marco Esposito, ed addirittura un intero Ateneo, la “Federico II”, nel mobilitarsi contro il regionalismo differenziato avrebbero preso posizione contro la Costituzione.

Ma cosa prevede il Titolo V della Costituzione? Questo il Ministro non lo precisa, limitandosi ad affermare in modo apodittico che “L’autonomia differenziata è scolpita nella Costituzione”.

Ebbene, l’articolo 116 della Costituzione recita testualmente: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge e approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

Dunque, l’autonomia differenziata può essere attribuita e non deve essere attribuita, compatibilmente al rispetto dei principi fondamentali del dettato costituzionale – uguaglianza, solidarietà, coesione, equità, unità, indivisibilità – quando le richieste provenienti dalle Regioni, come nel caso del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, sonoin irrimediabile contrasto con il quadro costituzionale”, come appunto evidenziato dall’Ateneo “Federico II” in un suo documento pubblico del 29 maggio 2019. Documento che di seguito viene riportato nella sua versione integrale.

02/03/2020 – Salvatore Lucchese

CONTRO QUESTO REGIONALISMO DIFFERENZIATO. PER UN SISTEMA UNIVERSITARIO EQUO ED EFFICIENTE

Sul finire della passata legislatura, tre Regioni settentrionali – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – hanno messo in opera iniziative intese a ottenere le «forme e condizioni particolari di autonomia» menzionate dall’art. 116, co. 3 Cost.

Lo hanno fatto disegnando, assieme al Governo allora in carica, un procedimento inedito e privo di fondamento normativo, che relega il Parlamento in ruolo ratificatorio e che ha tenuto a lungo i contenuti delle «intese preliminari» sotto un velo di fitta opacità, sollevato solo per – meritorie – divulgazioni “private” di singoli testimoni e riviste scientifiche.

Il processo è giunto, nella legislatura in corso, a una fase avanzata. In esso si sono ora rese attive anche molte altre Regioni, del Nord e del Sud.

Il percorso intrapreso rivela la dirompente radicalità delle misure proposte, incentrate sul massiccio trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni del Nord, e spinto fino a coprire pressoché interamente il quadro dell’art. 117 della Costituzione, misure a sostegno delle quali non vengono addotte serie risultanze analitiche. Il disegno, assai mal celato, è quello di drenare verso i territori del Nord – e verso gli apparati politico-istituzionali in essi operanti – la quasi totalità delle risorse provenienti dalla fiscalità generale, cioè le entrate da tributi erariali versati a livello regionale: il trasferimento delle competenze e delle funzioni e il richiamo all’efficienza nell’esercizio di queste sono rispettivamente strumento ed espediente retorico per tale scopo unico o maggiore. La “giustificazione” di tanto è “trattenere” in ciascuna Regione la ricchezza in essa prodotta, azzerando il «residuo fiscale», cioè la differenza tra quanto pagato dai contribuenti residenti nella Regione e la mole, presunta inferiore, di quanto trasferito dallo Stato. Ma, dal punto di vista della scienza economica, quest’uso della locuzione «residuo fiscale» ne fa uno pseudoconcetto; e il modo di “calcolo” di tale parametro tocca il limite della falsificazione, ove omette di considerare in esso gli interessi sul debito pubblico, che gravano su tutti i contribuenti italiani, a qualsiasi ambito territoriale appartengano.

Una pulsione egoistica, dunque, che rende ciechi alle conseguenze derivanti dal non certo auspicabile compimento di un simile progetto: la disarticolazione del welfare italiano, come sistema nazionale universalistico; la compromissione del modello economico, per la severa restrizione del mercato interno prodotta dal deterioramento delle condizioni del Mezzogiorno.

Ma quanto proposto è in irrimediabile contrasto con il quadro costituzionale, dal quale deriva l’obbligo di ridurre le diseguaglianze; di garantire i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali; di adempiere i doveri inderogabili di solidarietà, anche attraverso strumenti perequativi; di assicurare la tenuta del sistema di finanza pubblica, in riferimento all’ordinamento dello Stato, delle Regioni e degli altri enti territoriali.

Solo muovendo da siffatte coordinate, il principio di autonomia è coerente con il principio di unità, nel senso accolto dall’art. 5 Cost. E l’autonomia non può non alimentarsi della costante relazione tra autonomie, intese come sistema che, nel suo equilibrio, si compone nell’unità della Repubblica.

Né si può ignorare che la disciplina costituzionale delle autonomie, in ispecie delle Regioni, nei suoi tratti genetici e nel suo tenore normativo generale, è intesa alla composizione della frattura Nord-Sud, fattore storico di debolezza del sistema economico e del tessuto civile in Italia: composizione, non certo cristallizzazione o aggravamento.

L’allarme suscitato dal disegno generale si fa ancora più intenso se si pone mente alle misure di “differenziazione” che riguardano il sistema universitario (e dell’istruzione in genere), la ricerca scientifica e la sanità: dimensioni tutte che costituiscono l’ossatura dell’unità e della coesione della Repubblica. E, una volta individuato il “metodo”, proprio sull’università pare ci si voglia in particolare accanire: come dimostra anche la misteriosa – anch’essa – bozza di decreto ministeriale, o tentativo di decreto, del 15 aprile scorso, poi sommersa da arbitrarie attribuzioni di paternità e da conseguenziali disconoscimenti tra sede politica e apparati burocratici, con cui si stabilivano meccanismi di attribuzione “premiale” di risorse secondo “criteri” pensati per ridurre i finanziamenti destinati al sistema universitario meridionale. Una sorta di “anticipazione” del regionalismo differenziato a regime.

Il rischio è di determinare una completa disarticolazione di quell’ossatura: con l’indebolimento della scuola nelle Regioni del Mezzogiorno e dunque delle speranze di emancipazione e progresso connesse al buon funzionamento della intera filiera formativa che lega la scuola all’università; con percorsi universitari di studio eccessivamente frammentati, anche per criteri di accreditamento, valutazione e finanziamento; con sistemi universitari regionali subalterni al potere politico territoriale, e pericoli di involuzioni di segno localistico incompatibili con la cifra connotativa dell’insegnamento universitario. Una disarticolazione che potrebbe toccare lo statuto giuridico della docenza universitaria, assecondando l’afflusso degli studiosi di più elevato livello scientifico alle aree in grado di offrire le migliori condizioni di trattamento economico e normativo. Ne risulterebbe irreparabilmente minata l’unitarietà del diritto allo studio, che sarebbe garantito in maniera diversa in ragione della mera residenza territoriale, con un incentivo formidabile a un “turismo universitario” appannaggio esclusivo delle classi economicamente avvantaggiate. Università di diverso rango, sia per corpo docente sia per platea studentesca, nella negazione del principio di eguaglianza e della istruzione universitaria come “ascensore sociale” in coerenza con quanto affermato dall’art. 34 della Costituzione: ecco la distopia che viene proposta.

Peraltro, i criteri su cui oggi si fondano valutazione e finanziamento di Università e ricerca già favoriscono la crescita delle asimmetrie lungo la linea di frattura Nord-Sud.

Lo rivelano, in termini inequivocabili, alcuni dati: quelli relativi alla garanzia del diritto allo studio, con la Campania agli ultimi posti, insieme a Calabria e Sicilia, per percentuale di aventi diritto che accede alle borse di studio (fonte: Corte dei conti); quelli sui tagli al FFO, che, a fronte di una media nazionale del 9,8%, colpiscono gli atenei meridionali con una riduzione del 14,9%; quelli concernenti la ridistribuzione di parte delle risorse tagliate, che hanno dato beneficio per il 56% ad atenei del Nord, per il 27,2% ad atenei del Centro, per il 13,2% ad atenei del Sud (fonte: Commissione Cultura Camera dei deputati, periodo 2008-2015); quelli relativi alla riduzione dei punti organico e la distribuzione del turnover per aree geografiche: media nazionale -47,9%, Sud -56,9%, Isole -64,9% (fonte: FLC CGIL su dati MIUR).

Né le “politiche” che questi dati rivelano hanno giovato alla performance del sistema nazionale: l’Italia è penultima in Europa per numero di laureati, e prima per abbandoni.

Nelle politiche dei Governi che si sono succeduti negli anni è troppo spesso mancata dunque qualsiasi attenzione ai punti critici dei contesti in cui operano gli atenei del Mezzogiorno e, in particolare, alle varie e complesse diseconomie di sistema con cui essi devono confrontarsi. Le soluzioni escogitate, ricorrendo alle formule del “merito” e della “eccellenza” (vuote se sganciate dalla considerazione dei diversi punti di partenza), si sono rivelate meri moltiplicatori delle asimmetrie già esistenti. Una tendenza che non ha impedito a molti atenei meridionali – tra questi l’Università Federico II, la maggiore del Mezzogiorno – di assolvere comunque a una essenziale funzione di promozione culturale e di emancipazione sociale ed economica. Una tendenza che andrebbe però invertita, e che la “differenziazione” prospettata rischia invece di accentuare in maniera irreversibile e in termini drammatici per le sorti dell’intero Paese.

Per tutto questo, di fronte alla minaccia rappresentata dal progetto di differenziazione che è oggi in campo, dall’Ateneo fridericiano, attraverso i Direttori dei Dipartimenti e i Presidenti delle Scuole, proviene il più fermo dissenso: l’Università Federico II, con i suoi settecentonovantacinque anni di storia, e avendo contribuito e ancora contribuendo a formare la parte migliore delle classi dirigenti italiane, non può vedersi diminuita e resa marginale da politiche legislative tanto pedisseque a deteriori ideologie della divisione territoriale e della diseguaglianza quanto incerte e inconsapevoli nella strumentazione istituzionale apprestata.



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