Entrare nel loop in cui vi trascinano i primi tre episodi, emotivamente i più forti, non vi farà comprendere la nuova serie Netflix.
Uscite dal mood del ” è troppo volgare”, “non rappresenta la mia Napoli”, “fa vedere cose che non mi piacciono” e l’apprezzerete.
La scrittura “scavatore” della Ferrante c’è tutta, la mano psichedelica e fortemente simbolista di De Angelis, pure.
Di mezzo, un viaggio antropologico che, a dispetto di quanto letto da qualche parte, non racconta la donna in quanto tale e nemmeno l’uomo come individuo di sesso maschile, ma descrive l’uomo inteso come essere cosciente e responsabile dei propri atti.
Come in moderno di Pinocchio, che ben si scosta dalla favola di Collodi cui siamo abituati per calarsi e contestualizzarsi in questo tempo, non manca nulla.
Ci sono il bene, il male, la famiglia, l’amicizia, la religione, la politica, l’amore, il sesso, la città, la coscienza (Vittoria altro non è che il grillo parlante), l’io e il noi che dicotomicamente si affrontano fino a mescolarsi in quello che a tratti sembra un unico ed enorme calderone.
Al culmine della parabola, segnata dalla fine della guerra tra sensi e essenza, ogni elemento si smargina e al centro ritorna l’io, solo, che non ha più bisogno di altro al fuori di lui per essere.
Con un atto catartico, la forza dell’Io squarcia il velo di Maya, liberandosi e acquisendo consapevolezza e senso di sé e la protagonista smette di essere Giannina e comincia ad essere Giovanna, per la sua persona e per il resto del mondo.