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27 Luglio, 2024

“De vita beata”, Seneca, la felicità e la costruzione dell’indipendenza del proprio sé



Recensione di Antonio Crispino – Liceo Scientifico “Brunelleschi” di Afragola

L’autore dell’opera, Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, in Spagna, intorno al 4 a.C. Avviatosi verso un ideale ascetico di vita, da cui lo distolse il padre, abbracciò la carriera forense e la vita politica prima sotto Caligola, poi sotto Claudio e infine sotto Nerone. Ricchissimo, fu oggetto di aspre critiche e venne anche citato in giudizio. Nel 65, coinvolto nella congiura di Pisone, si tagliò le vene. È la felicità il tema del De vita beata, un mirabile vademecum del pensiero di Seneca.

In questo dialogo, dedicato al fratello Anneo Novato, il filosofo latino mostra che solo il saggio può raggiungerla. Distaccatosi dalle passioni terrene, egli diventa imperturbabile, al punto da non temere neanche la morte. Certo, è una strada difficile e piena di ostacoli, ma non è impraticabile. Perché non nel piacere, che è meschino, servile, debole e caduco, ma nella virtù risiede la sola vera felicità. Nella prima parte dell’opera, a cui il filosofo dà avvio con la dedica a suo fratello, con l’ausilio del metodo dilemmatico-propagginato sono presentate le vie della corrente e della ragione, sentieri che si crede conducano alla felicità, tema principale della trattazione. Nelle pagine successive è messa in chiaro che la definizione di felicità non è univoca: essa ‘’summum bonum est animus fortuita despiciens virtute laetus’’ ovvero consiste nel disprezzare i doni della fortuna e compiacersi della virtù oppure ‘’Invicta vis animi, perita rerum, placida in actu cum humanitate multa et conversantium cura’’, è una forza invincibile di umanità e di premure per gli altri; ancora, è felice chi non crede in bene e male ma solo in uomini buoni e cattivi, chi segue solo ciò che è onesto, si compiace della sola virtù, chi trova piacere nel disprezzo del piacer stesso… Seneca stabilisce che sono la stessa cosa vivere felici e vivere “secondo natura” intendendo che vivere affidandosi alle proprie capacità, essere artefici della propria vita e condotta e non lasciarsi turbare dal mondo che ci circonda è il modo corretto d’esistere: non bisogna essere dipendenti, schiavi del piacere perché questo è causa di assuefazione, malignità e non offre un bene reale, imperituro, come invece fa la virtù. Proprio in seguito a ciò, il filosofo illustra la distinzione tra piacere e virtù: il primo può essere sperimentato da tutti, anche dai disonesti e rappresenta un bene apparente, non solido; la seconda è tipica solo del saggio, è più bella perché meno visibile e rende completa la vita di un uomo: risulta indegno quindi chiedersi perché si aspira a quest’ultima, ‘’perché è come riferirsi a qualcosa che dovrebbe stare al di sopra del massimo a cui si possa aspirare’’ Tutto ciò non significa tuttavia, che l’uomo non provi alle volte anche del piacere nell’essere virtuoso, ma piuttosto che tale piacevolezza non è che un elemento accessorio della virtù, non certo (come pensavano invece i filosofi edonisti) la sua essenza o la sua guida. Seneca continua il suo vademecum procedendo con il meccanismo antitesi-tesi, proponendo dapprima apparenti elementi di contrasto alla sua filosofia e accuse dirette a suo carico e giustificando poi le sue scelte: in particolare, nei dialoghi XVI-XVIII mette in risalto la differenza tra chi inerte accusa e chi invece è almeno sul sentiero verso la virtù; nei dialoghi XXI-XXVI rispondendo ad ulteriori imputazioni presenta i concetti di ricchezza e fortuna e la posizione di stolti e saggi al riguardo (e il corretto utilizzo delle risorse nelle donazioni). Negli ultimi dialoghi, il filosofo sottolinea l’importanza del coltivare la virtù della pazienza per non essere turbati dalle critiche e vedere quest’ultime come prova delle proprie virtù: citando Aristotele “…ma la mia virtù ha ricevuto più luce proprio in grazia di quelle frecciate che pretendevano di colpirla giacché l’essere messa alla prova davanti agli occhi di tutti lungi dal danneggiarla le ha giovato, e nessuno ne ha compreso la grandezza più di quelli che, attaccandola, ne hanno sentito la forza…” trova forza nel pensiero che vuole esprimere. Nell’ultimo dialogo, Seneca, erge la figura del saggio su un piedistallo, perché dall’alto della propria condizione egli riesce a vedere i mali che, causati da una vita sbandata dal piacere, incombono sui più e sono pronti ad affossarli: non è tipico dello stoico però limitarsi all’osservazione, al pari degli edonisti, degli affanni di chi tenta di stare a galla in un mare metafora di una vita problematica. Il suo compito è quello di ‘’iuvare mortalem’’, quindi calarsi nel mare, ovvero vivere attivamente, ed evitare una strage di naufraghi. In definitiva, nella sua brevità il De vita beata risulta essere un manuale completo e da tenere sempre al fianco: seppure la virtù sia un obiettivo troppo alto, come Seneca sostiene dobbiamo compiacerci già del fatto che siamo in cammino verso un tale ideale, in scalata verso un’altissima vetta. Il filosofo ci insegna che se anche la perfezione non è ottenibile, si può vivere una vita assolutamente dignitosa tendendo sempre verso essa e questo è un messaggio difficile da interiorizzare ma che, una volta fatto nostro, ci svolta l’esistenza.

Recensione di Antonio Crispino – Liceo Scientifico “Brunelleschi” di Afragola



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