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17 Maggio, 2024

Da Pasquale Villari alla Svimez, il fallimento della moral suasion. È l’ora della “rivoluzione copernicana” meridionalista: dal cosa al chi



Nel 1905 lo storico, filosofo e politico napoletano Pasquale Villari scrisse una lettera al direttore del “Corriere della Sera” in cui confessò il suo personale fallimento politico relativo all’impegno da lui profuso in favore delle classi diseredate del Sud Italia.

“Non le nascondo, – scrisse Villari – che, sulla questione meridionale, io sono diventato assai sfiduciato e scettico. Ne scrissi fin dal 1860 nella ‘Perseveranza’, continuai colle Lettere meridionali nell’‘Opinione’, con molti articoli nella ‘Rassegna settimanale’, con un gran numero di opuscoli e discorsi. A che valse? A nulla addirittura. Questo sarà stato, è vero, conseguenza del poco valore dei miei scritti. Ma sulla stessa questione c’è una serie assai grande di opuscoli, discorsi, volumi, non pochi dei quali, dopo lungo studio e serie indagini, dettati da uomini autorevolissimi. Basta ricordare i nomi di Franchetti, Sonnino, Turiello, Colajanni, Rudinì, Fortunato e moltissimi altri. Ma quello che è più, sulla stessa questione, che è in sostanza una questione agraria, v’è stata la grande inchiesta parlamentare, che raccolse una vasto e prezioso materiale. A che cosa ha giovato tutto ciò? Altrove una grande inchiesta serve ad apparecchiare una grande riforma. Quale è la riforma agraria fatta da noi dopo l’inchiesta? Se qualche proposta fu presentata non ebbe neppur l’onore di una seria discussione in Parlamento”.

Dunque, nell’Italia liberale a nulla servirono lettere di denuncia, inchieste private e parlamentari, analisi e proposte più o meno dettagliate di risoluzione della questione meridionale, in quanto questo enorme sforzo intellettuale non era sostenuto da nessuna forza sociale e politica organizzata.

Allo stesso modo, ancora oggi, a centosedici anni di distanza dalla confessione di Villari, nell’Italia repubblicana, dal punto di vista precipuamente politico, ci potremmo chiedere a cosa sono valsi i numerosi rapporti annuali della Svimez e quelli dell’Eurispes, a cosa sono serviti i saggi, i libri e gli articoli di inchiesta e divulgazione, nonché i numerosi manifesti in favore del Mezzogiorno ed i molteplici piani di riequilibrio, a cosa sono servite le commissioni parlamentari d’inchiesta sull’iniqua ripartizione territoriale della spesa pubblica, se poi si continua a portare acqua, carbone ed olio sempre e solo alla solita locomotiva Nord?

Ecco, purtroppo, nonostante la profondità e la ricchezza delle analisi e delle proposte, non sono valsi a niente, perché ancora oggi, non essendo espressione di forze sociali e politiche progressiste e radicali autonomamente organizzate a livello territoriale, il meridionalismo dei “professori” prova con le sole e spuntate armi della moral suasion a convertire i lupi in agnelli, ossia, fuori metafora, prova a convincere gli esponenti delle attuali forze politiche del Grande Partito Traversale del Nord circa la bontà delle loro tesi sulla riunificazione nazionale.

In altri termini, sulla base di una concezione illuministica della politica, provano a trasformare una classe dirigente gretta e miope in una classe dirigente equa e solidale: de fabula narratur.   

Ma il clima sta cambiando, in quanto giù al Sud stanno nascendo numerose organizzazioni politiche meridionaliste, che non solo iniziano a dialogare tra loro, ma sollecitano anche gli enti locali a fare rete, come nel caso della mobilitazione di centinaia e centinaia di sindaci meridionali, che, al di là delle loro appartenenze politiche, hanno iniziato a fare squadra per richiedere un’equa ripartizione delle risorse del Recovery Plan.

Ora occorre accelerare questo processo di aggregazione. Occorre che si compia definitivamente la rivoluzione copernicana meridionalista: passare dal centralità del cosa fare per risolvere definitivamente la questione meridionale a quella del chi deve fare cosa per la collocazione specifica che occupa nei rapporti di produzione nell’età del capitalismo liberista. Rivoluzione copernicana da compiere sia in termini politici, sia in termini sociali, sia in termini culturali.  

Infatti, per riuscire a fare massa critica, è sempre più urgente che tutte queste forze – centri di ricerca, fondazioni, comitati, associazioni, movimenti, partiti – non solo dialoghino tra loro ma si rivolgano anche a tutte quelle forze sociali – operai, precari, disoccupati, inoccupati – che pagano i costi maggiori della declinazione etnica delle politiche liberiste italiane.

Senza idee non ci si orienta, ma senza gambe e braccia, senza forza, le idee rimangono stampate sulle pagine dei libri.



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