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15 Maggio, 2024

La questione meridionale come questione sociale: dalla Comune di Parigi (1871) alla “Lettere meridionali” di Pasquale Villari (1875) – I parte



Il dibattito politico-culturale sulle difficili condizioni socio-economiche in cui versavano le regioni meridionali quattordici anni dopo la proclamazione della nascita del Regno d’Italia iniziò nel 1875 con le lettere inviate da Pasquale Villari – storico napoletano allievo di De Sanctis – al giornale “L’opinione”. Con esse l’esule napoletano intese denunciare all’intera nazione le misere condizioni di vita e di lavoro in cui gravava la maggioranza della popolazione meridionale, per indurre la classe dirigente nazionale a prendere coscienza della problematicità della situazione e a porvi rimedio, evitando, così, gravi esplosioni di malcontento popolare che avrebbero potuto minacciare la società borghese, come nel 1871 era accaduto in Francia con l’esperienza rivoluzionaria della Comune di Parigi.

Nelle sue Lettere Villari approfondì l’analisi della questione sociale, individuando in essa la causa ultima dei molti mali che affliggevano Napoli e le altre regioni meridionali. Soffermando la sua intelligenza critica di politico e storico di spessore sul problema della camorra, egli affermò senza alcun indugio che la criminalità organizzata sarebbe stata sconfitta non solo con i mezzi repressivi, ma anche e soprattutto grazie ai mezzi preventivi che avrebbero dovuto risolvere la drammatica questione della povertà della plebe partenopea. Plebe vessata dall’indigenza, dalla sporcizia e dalle epidemie che mietevano centinaia di vittime.

Villari allargò la sua analisi critica all’intero Mezzogiorno, riportando i mali peggiori che lo attraversavano, quali, ad esempio, la corruzione, il brigantaggio e la mafia, alla stessa radice che alimentava la camorra napoletana: la questione sociale. Ancora oggi sono memorabili per l’acutezza critica e la viva intelligenza delle situazioni concrete la sua denuncia circa le condizioni di lavoro dei “carusi” nelle miniere di zolfo siciliane. 

Centinaia e centinaia di fanciulli – scrisse Villari – e fanciulle scendono per ripide scarpe e disagevoli scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare su, a schiena, col pericolo, sdrucciolando per quel terreno ripido e mal fido, di andar giù e perdere la vita. Quelli di maggiore età vengono su, mandando grida strazianti; i fanciulli arrivano piangendo. E’ noto a tutti, è stato mille volte ripetuto che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente. Molti ne muoiono; moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta la vita.

Altrettanto famosa la sua denuncia del latifondo, che alimentava povertà, usura, spoliazione, violenza ed oppressione.

I contadini – osservò Villari – in massima parte sono proletari, che debbono ogni giorno camminare molte miglia, per arrivare al luogo del lavoro. Altra relazione tra essi e i loro padroni non v’è, che quella dell’usura e della spogliazione, di oppressi e di oppressori. Se viene l’annata cattiva, il contadino torna all’aia piangendo, con la sola vanga sulle spalle. E quando l’annata è buona, gli usurai suppliscono alla grandine, alle cavallette, alle tempeste, agli uragani. Fra i tiranni dei contadini sono le guardie campestri, quelle pronte alle armi e ai delitti, e sono ancora quei contadini più audaci, che hanno qualche vendetta da fare, o sperano trovare coi delitti maggiore agiatezza: così la potenza della mafia è costituita. Essa forma come un muro fra il contadino e il proprietario e li tiene sempre divisi.



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