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4 Ottobre, 2024

Progetto “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità”: studentesse ricordano il giudice Rosario Livatino e l’imprenditore Gianfranco Trezzi



Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani propone due tragiche vicende: la prima verificatasi il 19 settembre del 1988 nel milanese, con il sequestro dell’imprenditore Gianfranco Trezzi, successivamente ucciso e il cui corpo diviso in una settantina di pezzi e chiuso in un sacco della spazzatura fu ritrovato il 10 dicembre dello stesso anno in una villa situata nel comune di Vigevano; la seconda dolorosa storia riguarda l’assassinio di stampo mafioso del giudice Rosario Livatino avvenuto il 21 settembre del 1990 su una strada provinciale di Agrigento; il loro ricordo oggi è affidato alle parole di due studentesse della classe IV sez. C del liceo scientifico Filolao di Crotone:
“Gianfranco Trezzi, modesto imprenditore che gestiva un’azienda nei pressi delle periferie milanesi specializzata in tubi e materiali siderurgici, il 19 settembre 1988 come tutte le mattine, uscì verso le sette per trasferirsi in ufficio.

Verso mezzogiorno gli operai preoccupati dal fatto che ancora il loro capo non era arrivato a lavoro si misero in contatto con la moglie Mercedes e i figli Massimo, Paolo e Cristina, che lavoravano nell’azienda da anni, ma nel frattempo alcuni impiegati, dopo lunghe ricerche, trovarono l’auto di Trezzi abbandonata con le chiavi nel cruscotto e i finestrini alzati, e da qui capirono che la situazione era più complessa del previsto.

Fu in seguito contattata la polizia che in serie difficoltà non riuscì a capire lo scopo del rapimento dell’imprenditore, poiché in quel periodo l’azienda navigava in acque finanziarie molto pericolose, ma giorni dopo, il 22 settembre arrivò una lettera e una foto di Trezzi ai suoi cari, con la proposta di un riscatto di ben 5 miliardi di lire per la sua liberazione, così senza perdere tempo la famiglia affidò la situazione a un legale che non ottenne altro che silenzio.

Ma quando il 26 ottobre all’idroscalo fu trovato il cadavere di Valerio Affiaiato un membro della banda del rapimento di Trezzi, fu facile per la polizia risalire agli altri membri grazie alle rivelazioni di uno dei complici che portò al nome di Bruno Mario D’Alessandri, un insospettabile orefice, che non solo confessò la sua partecipazione al delitto, ma anche di essere stato uno dei capi della banda incaricata del sequestro dell’imprenditore.

E dopo tre mesi il 10 dicembre grazie alle indicazioni fornite da D’Alessandri venne ritrovato nel giardino della villa “Tana del Lupo”, vicino a Cassolnovo, in provincia di Pavia, dove era stato tenuto prigioniero e ucciso subito dopo la richiesta di riscatto, il cadavere di Trezzi, tagliato in 72 pezzi e chiuso in un sacco della spazzatura.

Nel frattempo la polizia continuò le ricerche e riuscì a risalire a Giuseppe Sanzone, capo della banda, e Renato Danne, un piccolo imprenditore milanese, indagato come complice in quanto proprietario della villa, ma solo il 30 dicembre, dopo una lunga e difficile trattativa, i due furono arrestati. Nel 1990 iniziò il processo e tutti i componenti della banda furono condannati, solo D’Alessandri ottenne 18 anni grazie alla sua collaborazione con la giustizia.

La vicenda accaduta fu una delle più terrificanti degli anni novanta, un delitto spaventoso, una persona innocente, diventata vittima della mafia. Tutti noi siamo a conoscenza che lo scopo delle attività illegali dei clan mafiosi hanno un solo scopo quello di guadagnare quantità esorbitanti di denaro sottraendolo il più delle volte a famiglie che lavorano sodo per vivere per garantire un futuro migliore ai propri figli, ma nel compiere queste azioni sono capaci a mettere fine a vite di padri di famiglia, ragazzi donne e bambini.

Purtroppo nonostante ancora oggi accadono episodi del genere per soddisfare l’ego di qualcuno, ma poche volte si prevedono e si riescono a fermare in tempo prima di causare vittime innocenti. Allora occorre un po’ di coraggio da parte di tutti, un po’ di amore in più per la giustizia, la legalità e lo Stato, perché lo Stato siamo tutti noi, e tutti dobbiamo collaborare e operare per far sì che ogni attività mafiosa non abbia più luogo.” (Alessandra Riillo)

“Il “giudice ragazzino”. Cosi è stato denominato il procuratore del tribunale di Agrigento, ucciso, a soli 38 anni, a sangue freddo in un’imboscata mafiosa. Il suo nome era Rosario Livatino, un giovane uomo di poche parole, rispettoso degli altri, con un’immensa fede, cresciuto col forte desiderio di intraprendere la carriera di avvocato, professione svolta già dal padre. La vita, però, gli aveva riservato altro: stimolato dalla sete di giustizia e dalla volontà di compiere azioni finalizzate a garantire la massima sicurezza delle persone, riuscì ad entrare come procuratore nel tribunale di Caltanissetta e ad assumere, successivamente, il ruolo di giudice.

Le sue prime indagini erano dirette verso le organizzazioni mafiose, cercando più volte di scoprire verità nascoste e confiscando beni importanti alle famiglie malavitose del posto. È stata proprio la severità dei suoi provvedimenti a scatenare la vendetta: nella mattinata del 21 Settembre del 1990, di 34 anni fa, mentre percorreva con il suo autoveicolo la strada statale che collega Agrigento a Caltanissetta, venne ucciso per mano di quattro sicari appartenenti alla Stidda agrigentina.

Grazie alle informazioni fornite da un testimone presente sulla scena del crimine, fu possibile identificare rapidamente i quattro colpevoli che, dopo l’arresto, confessarono il delitto e, in seguito, si dichiararono di essere pentiti. I concittadini e i familiari di Rosario Livatino, nella stessa giornata, si radunarono sulla scena del crimine per omaggiare per l’ultima volta il corpo del giudice, straziato dai colpi di pistola.

Il giudice Rosario Livatino era un uomo che voleva fare del bene alla collettività, dando esempio di grande fede, che lo ha guidato con saggezza nel suo percorso, tanto che il 9 Maggio del 2021 Papà Francesco, per il suo martirio lo ha beatificato. Molta gente, ancora oggi, ipotizza che se in quel giorno non avesse rifiutato la scorta, probabilmente oggi non parleremmo della sua prematura scomparsa.

La sua è comunque una lezione di grande coraggio e di sacrificio per il bene dello Stato e per il prossimo; il suo agire ci insegna che la vera forza risiede nella coerenza tra ciò che si crede e ciò che si fa. Per i giovani, il suo esempio è un invito a perseguire i propri ideali con determinazione e a non cedere mai alla paura o alla corruzione.

Da giovane allieva del liceo scientifico Filolao che nel corso dell’anno scolastico ha rivissuto e ripercorso la vita spezzata di tante vittime innocenti della mafia con il progetto di educazione civica attiva, promosso dal CNDDU, “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità”, e ha presenziato alla Mostra in ricordo di Rosario Livatino, presso il nostro Istituto, devo ammettere che sentire la registrazione delle sue ultime parole e la testimonianza dell’uomo che involontariamente ha assistito a quanto è accaduto al magistrato è stato un momento intenso creando in noi student un turbinio di emozioni, che vanno dalla rabbia alla paura, dall’ammirazione al rispetto, dalla riflessione all’ispirazione.

Sentire le ultime parole di Livatino, pronunciate con un filo di voce, costituisce una testimonianza del suo coraggio. In quei momenti finali, non c’era paura, solo una profonda serenità e una fede incrollabile. Le sue parole risuonano ancora oggi, un’eco di giustizia e speranza che continua a ispirare. Il testimone che ha assistito all’omicidio porta con sé un peso enorme. Ha visto la brutalità della mafia, ma anche la dignità di un uomo che non ha mai ceduto. La sua testimonianza è un grido di dolore, ma anche un richiamo alla resistenza. È un promemoria che la lotta di Livatino non è stata vana, che il suo sacrificio ha acceso una fiamma che continua a bruciare nei cuori di chi crede nella giustizia.

“Quando moriremo non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”. (Rosario Livatino sta in Roberto Mistretta autore di “Rosario Livatino. L’uomo, il giudice, il credente”).” (Arianna Balota)

“Gianfranco Trezzi, modesto imprenditore che gestiva un’azienda nei pressi delle periferie milanesi specializzata in tubi e materiali siderurgici, il 19 settembre 1988 come tutte le mattine, uscì verso le sette per trasferirsi in ufficio. Verso mezzogiorno gli operai preoccupati dal fatto che ancora il loro capo non era arrivato a lavoro si misero in contatto con la moglie Mercedes e i figli Massimo, Paolo e Cristina, che lavoravano nell’azienda da anni, ma nel frattempo alcuni impiegati, dopo lunghe ricerche, trovarono l’auto di Trezzi abbandonata con le chiavi nel cruscotto e i finestrini alzati, e da qui capirono che la situazione era più complessa del previsto.

Fu in seguito contattata la polizia che in serie difficoltà non riuscì a capire lo scopo del rapimento dell’imprenditore, poiché in quel periodo l’azienda navigava in acque finanziarie molto pericolose; ma giorni dopo, il 22 settembre arrivò una lettera e una foto di Trezzi ai suoi cari, con la proposta di un riscatto di ben 5 miliardi di lire per la sua liberazione. Senza perdere tempo la famiglia affidò la situazione a un legale che non ottenne altro che silenzio.

Ma quando il 26 ottobre all’idroscalo fu trovato il cadavere di Valerio Affiaiato, un membro della banda del rapimento di Trezzi, fu facile per la polizia risalire agli altri membri grazie alle rivelazioni di uno dei complici che portò al nome di Bruno Mario D’Alessandri, un insospettabile orefice, che non solo confessò la sua partecipazione al delitto, ma anche di essere stato uno dei capi della banda incaricata del sequestro dell’imprenditore. E dopo tre mesi il 10 dicembre, grazie alle indicazioni fornite da D’Alessandri, venne ritrovato nel giardino della villa “Tana del Lupo”, vicino a Cassolnovo, in provincia di Pavia, dove era stato tenuto prigioniero e ucciso subito dopo la richiesta di riscatto, il cadavere di Trezzi, tagliato in 72 pezzi e chiuso in un sacco della spazzatura.

Nel frattempo la polizia continuò le ricerche e riuscì a risalire a Giuseppe Sanzone, capo della banda, e Renato Danne, un piccolo imprenditore milanese, indagato come complice in quanto proprietario della villa, ma solo il 30 dicembre, dopo una lunga e difficile trattativa, i due furono arrestati. Nel 1990 iniziò il processo e tutti i componenti della banda furono condannati, solo D’Alessandri ottenne 18 anni grazie alla sua collaborazione con la giustizia.

La vicenda accaduta fu una delle più terrificanti degli anni Novanta, un delitto spaventoso, una persona innocente, diventata vittima della mafia. Tutti noi siamo consapevoli che lo scopo dei clan mafiosi è guadagnare quantità esorbitanti di denaro, dirigendo tutta una serie di attività lucrose e illegali.

Per realizzare i propri obiettivi la violenza viene utilizzata a scopo intimidatorio o punitivo anche nei confronti di vittime innocenti. Allora occorre un po’ di coraggio da parte di tutti, un po’ di amore in più per la giustizia, la legalità e lo Stato, perché lo Stato siamo tutti noi, e tutti dobbiamo collaborare e operare per far sì che la realtà intorno a noi cambi.” (Alessandra Riillo)

Seguendo l’insegnamento di Livadino, è importante costruire nelle aule scolastiche percorsi di responsabilità civica, con l’intento di favorire il senso del bene comune e dell’attaccamento allo Stato e ai valori della nostra Costituzione.

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani rileva come il progetto “#inostristudentiraccontanoimartiridellalegalità” stia diffondendo tra le giovani generazioni volti, storie, episodi veramente straordinari per la loro valenza educativa.



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