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24 Aprile, 2024

LA GRANDE RIMOZIONE: SOCIALISMO, COMUNISMO E QUESTIONE MERIDIONALE



Il dualismo sociale, economico e civile tra Nord e Sud Italia ha trovato in diversi esponenti del socialismo e del comunismo italiano alcuni dei suoi più lucidi ed innovativi interpreti che vale la pena iniziare a rimuovere dall’oblio cui sono stati sottoposti anche a seguito della rimozione del Meridione dal dibattito pubblico, nonché dall’agenda politica dei Governi italiani degli ultimi trent’anni.

“Cancellazione” segnata sia dalla chiusura della Cassa del Mezzogiorno (1984) che dalla cessazione dell’Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno (1994), sia dal depennamento dello stesso termine Mezzogiorno dalla Carta costituzionale (2001) che dal ridimensionamento dell’interesse storiografico nei suoi confronti, fino al punto tale che, di recente, il Presidente della “Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea” Fulvio Cammarano ha affermato che “il meridionalismo è morto, svuotato di ogni significato”.

Precedentemente sollevata da eminenti intellettuali e politici moderati di orientamento liberale, quali, Pasquale Villari, Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti e Giustino Fortunato, a partire dalla fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento, la questione meridionale, intesa come questione sociale, viene ripresa e riformulata anche da studiosi e politici che militano nei campi del socialismo e del comunismo.

Ci si riferisce a nomi di assoluto rilievo della nostra cultura storiografica, economica, politica, filosofica e pedagogica: Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, Emilio Sereni, Francesco De Martino, Mario Alicata, Giorgio Amendola, Rosario Villari, Nicola Zitara, Rodolfo Morandi.

Se il meridionalismo di orientamento liberale aveva incentrato la sua attenzione sul cosa fare, proponendo, soprattutto, delle riforme di carattere sociale tese a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei contadini e dei braccianti del Sud Italia, i meridionalisti di orientamento socialista e comunista, invece, focalizzano la loro attenzione soprattutto sugli aspetti politici della questione meridionale, ponendosi il problema del chi deve fare cosa. In questo modo, giungono ad individuare nelle classi rurali del Mezzogiorno non tanto l’oggetto di riforme calate paternalisticamente dall’alto, quanto il soggetto da dovere rendere attivo, cosciente e consapevole del proprio processo di emancipazione.

Tra i primi ad affrontare la questione meridionale collocandola nel processo di sviluppo del capitalismo italiano, riprendendo un’espressione marxiana, il lucano Ettore Ciccotti ritiene che “il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia soffre, a un tempo, dello sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo […]. Il Mezzogiorno ha le condizioni che l’economia capitalistica fa a’ vinti nella lotta della concorrenza”.

Tuttavia, coerentemente all’impostazione economicistica del marxismo della Seconda Internazionale, lo storico lucano privilegia i temi relativi allo sviluppo delle forze di produzione piuttosto che gli aspetti relativi all’organizzazione delle forze sociali. Pertanto, in affinità con le posizioni politiche del riformismo turatiano, in ultima istanza, Ciccotti ritiene che la lotta per il riscatto del Meridione sarà condotta dal proletariato industriale ed urbano del Nord una volta che le riforme di carattere economico ne consentano il pieno sviluppo delle forze di produzione.

Solo allora, secondo lo storico lucano, insieme al “tramonto dell’era capitalistica” scomparirebbero anche i “caratteri degenerativi del Mezzogiorno”. Così facendo, Ciccotti propone una politica meridionalista incentrata su due tempi di attuazione: prima lo sviluppo delle forze produttive settentrionali e soltanto dopo il riscatto delle masse popolari e lavoratrici meridionali dalle loro condizioni di sfruttamento e di arretratezza grazie alle lotte socialiste condotte dagli operai settentrionali. Al massimo, secondo Ciccotti, nel Meridione possono essere condotte delle lotte democratiche, tese anche a riformare, secondo il modello svizzero da lui analizzato, gli ordinamenti statuali in chiave federalista.

Il socialista pugliese Gaetano Salvemini critica l’impostazione economicistica dei due tempi, che, a suo parere, finirebbe col subordinare e col sacrificare anche all’interno del campo socialista il Sud agricolo al Nord industriale, per porre con forza, decisione e determinazione la prospettiva del conflitto di classe. Al blocco conservatore costituito dagli industriali settentrionali, dai latifondisti e dai piccolo-borghesi meridionali, Salvemini propone di contrapporre il blocco rivoluzionario formato dagli operai del Nord e dai contadini del Sud.

Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento, anche a seguito dell’operato del positivista e socialista rivoluzionario Enrico Ferri, le teorie antropologico-razziali di Cesare Lombroso e di Alfredo Niceforo sulla superiorità dei settentrionali e l’inferiorità dei meridionali penetrano tra le masse popolari del Nord e circolano tra gli operai socialisti, rafforzandone, così, i pregiudizi antimeridionali, cui viene data una presunta dignità scientifica basata sull’evidenza “oggettiva” dei fatti.

In questo clima di pregiudizi e di diversi, se non contrapposti, interessi economico-politici, Salvemini si impegna all’interno del Partito socialista per la costruzione di una piattaforma politico-programmatica incentrata sulla lotta per il suffragio universale ed il federalismo dal basso su base comunale. In esplicita polemica con la torsione territoriale della contrapposizione tra Nord e Sud, secondo lo storico pugliese, tale piattaforma avrebbe consentito agli operai settentrionali di proseguire sulla strada delle riforme economiche ed ai contadini meridionali di assurgere definitivamente a protagonisti diretti del loro processo di emancipazione, mettendo, così, entrambe le classi sociali in condizione di avanzare verso la trasformazione democratica e socialista dell’Italia.

Uscito dal Partito socialista, Salvemini accentuerà la componente democratica del suo programma di riforme a favore del Sud, mentre Gramsci riprenderà ed approfondirà in chiave comunista la sua proposta di costruzione di un blocco operaio-contadino.

Sullo sfondo degli esiti della crisi dello Stato liberale in Italia, della rivoluzione bolscevica in Russia e sulla base di una lettura marxista dello sfruttamento coloniale del Sud da parte del Nord, l’intellettuale sardo opera una profonda revisione delle impostazioni deterministiche ed economicistiche presenti nel campo socialista. Revisione che lo induce a svelare il carattere conservatore e corporativo del blocco sociale formato dai capitalisti e dagli operai settentrionali durante l’età giolittiana.

Invece, secondo Gramsci, la condizione affinché si realizzi la rivoluzione comunista in Italia consta nella costruzione di un blocco storico antagonista formato dagli operai settentrionali e dai contadini meridionali. Superando i loro antichi e radicati pregiudizi nei confronti di quest’ultimi, gli operai settentrionali avrebbero dovuto esercitare la loro egemonia politica, culturale ed organizzativa nei confronti dei contadini meridionali, favorendone la creazione di formazioni autonome ed indipendenti. Una volta conquistato il potere e fondato lo Stato degli operai e dei contadini, secondo lo studioso sardo, il divario Nord/Sud, intrinseco al distorto processo italiano di sviluppo capitalistico, sarebbe stato colmato nella prospettiva unitaria di costruzione del socialismo.

Nel secondo dopoguerra, quando le masse contadine meridionali divengono le protagoniste dirette delle lotte di emancipazione, che troveranno una risposta nella riforma agraria del 1950, lo studioso di formazione marxista Emilio Sereni approfondisce i termini storici della questione meridionale, ravvisandoli nella mancata rivoluzione agraria.

Nel frattempo, nell’ambito del movimento di lotta per la Rinascita del Mezzogiorno, gli intellettuali e politici socialisti, Francesco De Martino, e comunisti, Mario Alicata, Giorgio Amendola e Rosario Villari, danno vita alla rivista Cronache meridionali, che, nel sottolineare il carattere nazionale della questione meridionale, promuove anche politiche di alleanze di classe per potere avviare la trasformazione democratica e socialista della società meridionale ed italiana. L’esperienza termina nel 1964, quando nel campo comunista si ritiene che il definitivo decollo industriale del Paese avrebbe condotto ad un processo di “eliminazione degli squilibri”.

Negli anni Settanta, a partire da un’analisi marxista della storia del Mezzogiorno incentrata sulle nozioni di colonia interna e di rapporto dialettico tra sviluppo del Nord e sottosviluppo del Sud, il giornalista e studioso Nicola Zitara mette radicalmente in discussione la possibilità di realizzare l’unità di classe, denunciando la frattura “strutturale”, l’inconciliabilità tra gli “interessi” del proletariato settentrionale e quelli del proletariato meridionale.

Sempre a partire dal secondo dopoguerra, insieme ai cattolici di orientamento sociale, Pasquale Saraceno, il socialista Rodolfo Morandi concorre alla nascita del nuovo meridionalismo di Governo grazie alla fondazione della SVIMEZ (1946) e della Cassa del Mezzogiorno (1950), che, ispirandosi alle politiche economiche keynesiane, mira all’intervento pubblico nel Meridione per favorirne l’industrializzazione.

Si spera che questo brevissimo excursus sul meridionalismo di orientamento socialista e comunista possa contribuire ad avviare un dibattito per recuperarne la memoria storica in una fase economica in cui la ristrutturazione del capitalismo globalizzato in Italia si caratterizza anche per l’acuirsi del divario Nord/Sud e per le sue proposte di istituzionalizzazione tramite il “golpe dei ricchi”.

Per ora basti sottolineare alcuni spunti storico-teorico-pratici offerti dalle culture politiche del socialismo e del comunismo in ambito meridionalistico. Innanzitutto, il loro merito consta nell’analisi della questione meridionale come questione sociale entro lo sviluppo ineguale dei processi della modernizzazione capitalista del Paese. Ne segue il tema precipuamente politico di fare degli operai del Nord e dei contadini del Sud il soggetto attivo e consapevole dei processi di emancipazione e trasformazione della società in senso democratico, socialista e comunista e non il semplice oggetto passivo di riforme calate paternalisticamente dall’alto.

A questo tema si collega quello della costruzione di un blocco rivoluzionario operaio-contadino da contrapporre al blocco reazionario formato dai capitalisti settentrionali e dai latifondisti meridionali. Tuttavia, sul piano storico-sociale e su quello politico-culturale per la costituzione del blocco rivoluzionario sono da segnalare sia difficoltà strutturali, la divergenza delle condizioni materiali e degli interessi tra le classi lavoratrici meridionali e quelle settentrionali, sia ideologiche, la diffusione tra le masse popolari e lavoratrici del Nord delle teorie antropologico-razziali sull’inferiorità dei meridionali, sia politiche, la priorità programmatica da assegnare alle lotte delle classi lavoratrici del Nord rispetto a quelle del Sud.

Inoltre, non si può non sottolineare il carattere ambivalente del socialismo e, soprattutto, del comunismo rispetto al problema del dualismo Nord/Sud, in quanto, se da un lato va riconosciuto ad esse il merito fondamentale di avere contribuito a porre con determinazione il problema della questione meridionale come questione nazionale, arricchendone le analisi storiche, sociali, economiche e politiche, dall’altro hanno anche la responsabilità di avere partecipato alla sua rimozione politico-culturale, passando dall’immagine di un Mezzogiorno come “problema”, a quella della sua “normalità” e successivamente, anche se solo indirettamente, alla sua “cancellazione”.

Ad oggi, fermo restando alcune importanti e significative eccezioni, che potrebbero anche segnare un’inversione di tendenza, si pensi, ad esempio, all’attuale candidatura dello storico del Mezzogiorno Pietro Bevilacqua nella lista “La Sinistra”, oppure alle recenti dichiarazioni di Guglielmo Epifani e di Sandro Fucito sulla centralità della nuova questione meridionale, nell’età della Lega Nord e del “settentrionalismo”, tale rimozione ha comportato a generare una decisa diffidenza ed una strenua opposizione rispetto all’uso della stessa categoria storico-politico-culturale di questione meridionale tra non pochi militanti, funzionari, dirigenti ed intellettuali “organici” (?) agli attuali Partiti eredi di quelle grandi culture politiche novecentesche, in quanto il “vuoto di memoria” li induce acriticamente ad identificare la questione meridionale con le istanze identitarie promosse dai neoborbonici, senza rendersi conto che proprio il silenzio delle forze della sinistra radicale rispetto al divario Nord/Sud contribuisce indirettamente a rafforzarne le letture di matrice esclusivamente identitaria, che, nel vuoto della rappresentanza politico-culturale degli ultimi decenni, sono una re-azione speculare a quelle etnico-territoriali della Lega Nord.

Di fatto, tale riduzione ed identificazione suona come uno strumento ideologico per screditare e ridurre al silenzio le lotte sociali, politiche e culturali delle classi popolari e dei ceti intellettuali meridionali quando si organizzano per rivendicare i loro diritti sanciti dalla Costituzione.

Di certo, la variegata ed articolata tradizione meridionalista di matrice socialista e comunista merita assolutamente di essere recuperata sia sul piano dell’indagine storica che su quello politico, a partire dalla critica dei coevi processi capitalistici, nonché dall’analisi dettagliata della composizione di classe delle società italiana e dal rilancio della centralità del momento pedagogico-politico di coscientizzazione delle nuove soggettività antagoniste – giovani, disoccupati, inoccupati, precari, emigranti, immigrati – per renderle protagoniste attive del riscatto dalla loro condizione di sfruttamento, subalternità e discriminazione non solo sociale ma anche territoriale e pregiudizialmente “razziale”, come ci ha dimostrato la “perversa” applicazione del federalismo fiscale con l’espropriazione ai cittadini meridionali di 61 miliardi di euro di spesa pubblica allargata l’anno nel solo triennio 2014/2016.

22/05/2019 – Salvatore Lucchese



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