Nel XIII secolo, al tempo del Re Federico II di Svevia, nell’umido vicoletto dei Cortellari, c’era una casetta che sembrava una torre, con finestrelle dai vetri impiombati e scale buie che si intravedevano dal basso portone cigolante. Chi vi passava davanti lo faceva in fretta, alla lontana, mormorando preghiere o scongiuri contro il malocchio. La casa, pur essendo abitata da gente malfamata, non aveva nulla di diabolico, ma quello che spaventava i passanti era il misterioso inquilino dell’ultimo piano, Chico il mago.
Nessuno sapeva chi fosse né da dove venisse, ed ancor più difficile era cercare di scoprirlo perché se ne stava quasi sempre chiuso in casa. Raramente usciva, ma le poche volte, sempre con una lunga veste nera assorto nei suoi pensieri, borbottando parole greche, latine o forse formule magiche. Nonostante l’aura di mistero che lo avvolgeva, non mostrava di essere scontroso e sinistro, anzi, era gentile, aveva gli occhi scuri e sorridenti, ed una folta barba candida proprio come i suoi lunghi capelli, ma il suo aspetto non bastava per tranquillizzare gli abitanti del quartiere.
Da quando si trasferì a vicolo dei Cortellari, la curiosità per l’oscura e sospetta attività dell’uomo crebbe a tal punto tra le persone della stradina, che non si riuscì più a distinguere quelli che erano fatti inquietanti da fantasie popolari; ed il fatto che la luce nella stanzetta della sua casa restasse accesa tutta la notte, con il nero comignolo sempre fumante, alimentò ancor di più la fantasia ed il timore dei vicini. Alcuni lo videro, dalle finestre di fronte, curvo su una pentola in perenne bollore intento a consultare antiche pergamene, ed ogni qual volta usciva sul terrazzino, colto chissà da quale forza demoniaca, si scuoteva come un ossesso e dalla sua veste volava via una strana polvere bianca che lasciava intravedere sul tessuto delle macchie rosse che sembravano essere proprio sangue.
Dicerie a parte, Chico era piombato nel quartiere come un sasso in uno stagno di ranocchie e visto che non dava modo a nessuno di poter indagare sul suo conto, le persone cercavano di avere notizie dal suo servo che, però, da straniero o finto tale, non rispondeva e si limitava ad andare al mercato dove comprava cose normalissime come cipolle, basilico, agli e pomodori. Ecco quindi che, in mancanza di informazioni certe, la gente ipotizzava di tutto e di più: forse il mago cercava l’elisir di lunga vita? o la pietra filosofale che trasformava i metalli vili in oro? magari evocava il diavolo per diventare re?
In realtà Chico, suo malgrado, non aveva nulla a che fare con la magia, però era un grande inventore. Da giovane visse come un nobile: ricco, in salute, bello come il sole, cavalli, gioielli, splendidi vestiti, feste, banchetti, belle donne, tornei di cavalleria. Insomma, aveva goduto in pieno di tutto questo finché gli erano durate le sue fortune.
Poi, per ragioni imprecisate, le donne e gli amici iniziarono ad allontanarsi da Chico che, essendo un uomo colto, non se n’era dispiaciuto ed anzi aveva visto in questa ritrovata solitudine un’occasione per potersi meglio concentrare sui suoi studi. La lettura degli antichi filosofi lo rese di animo forte ed iniziò a desiderare di regalare agli altri almeno una briciola di quella felicità che visse da giovane. Così, ormai solo, decise di dedicare il suo tempo alla ricerca di qualcosa che desse gioia a tutti gli uomini, ricchi o poveri che fossero.
Maccheroni: un’invenzione per donare felicità
Spese quello che gli era rimasto per comprare antichi manoscritti, poi cominciò a studiarli dando vita a quegli esperimenti teorici che nella sua casina presero vita. Lavorò giorno e notte e, mentre il progetto prendeva forma, pensava agli onori che l’invenzione gli avrebbe procurato: sarebbe stata una cosa straordinaria, perfino le generazioni future avrebbero pronunciato il suo nome con gratitudine. Dopo anni di lavoro, un giorno capì di aver raggiunto il compimento della sua opera, eppure non ne parlò con nessuno. Temava che, parlandone, l’invenzione non sarebbe stata più sua, e si diceva che presto l’avrebbe annunciata al mondo ma che al momento voleva ancora perfezionarla. Se solo avesse saputo quello che l’aspettava si sarebbe affrettato a divulgarla al più presto. Ed ecco il perché.
Il terrazzino del mago aveva in comune la porta di una stanzetta dove abitava col marito una donna, dagli occhi verdi e maliziosi circondati e da una capigliatura bruna e riccioluta, si chiamava Giovannella Di Canzio: furba, pettegola e dall’irrefrenabile curiosità.
Per la donna, non avere nulla da riferire alle amiche sul vicino così misterioso, divenne un pensiero assillante sia di giorno che di notte. Se da un lato Giovannella voleva scoprire i segreti di Chico, dall’altro temeva di ficcarsi in faccende troppo pericolose. Le sue esitazioni durarono fino a quando una sera, con coraggio, approfittò del momento in cui il marito andò a letto, si avvolse nello scialle nero e senza far rumore uscì sul terrazzino. Vincendo la paura si avvicinò alla porticina del mago dalla quale filtrava un po’ di luce e guardò dal buco della serratura.
Al centro della stanza c’era un’enorme cucina, con un pentolone su di una caldaia, e un tavolo di marmo su cui vi erano appoggiate delle canne di diverse misure. Poi tutt’intorno, pendenti dalle pareti, riposti sugli scaffali o sulla credenza: coperchi e padelle di tutte le forme e dimensioni, libroni rilegati in cartapecora, setacci, cucchiarelle, coltelli, piatti, tazzine, zuppiere, brocche e boccali. Quella stanza, più che all’antro di uno stregone, somigliava alla cucina del palazzo reale dove il marito di Giovannella lavorava come sguattero.
Chico pestava gli ingredienti nel mortaio, li mescolava con maestria ed ogni tanto usava le canne che aveva a portata di mano, sempre seguito dallo sguardo incuriosito di Giovannella che man mano si divertiva sempre più.
“E così sono questi i tuoi sortilegi?” La donna rise e tornando a casa disse tra sé e sé: “vedrai che diavolerie sarò capace di combinare io!”
Infatti a giovannella, pronta per darsi alle scienze occulte, bastarono soltanto tre giorni di esperimenti per mettere a punto la sua magia, a differenza del povero Chico che stava cercando di perfezionarla da mesi. Una mattina annunciò al marito: “giacomo, la nostra fortuna è fatta” e lui a lei: “sei diventata una strega?” “ma no! devi dire al cuoco di palazzo che conosco una pietanza così squisita da meritare l’assaggio del re” “devi essere impazzita” “dio mi fulmini se sto mentendo” disse Giovannella che con carezze e sdolcinerie, vinse la resistenza del timoroso Giacomo, convincendolo a parlare della cosa con il cuoco, il quale ne avrebbe fatto arrivare voce fino al re con un passaparola tra maggiordomi e conti. Quando a Federico arrivò la notizia, ordinò di convocare a corte Giovannella che nelle cucine reali avrebbe dovuto preparargli questo fantomatico piatto. La donna precipitatasi al palazzo del re, per prima cosa cacciò fuori cuochi, sguatteri e camerieri, dicendo che si trattava di un segreto; poi si mise all’opera.
I maccheroni prendono forma
Impastò farina con acqua, dando vita ad un panetto che lavorò a lungo e, con l’aiuto di una grossa canna, ne fece una pettola sottile come una tela. Tagliò la pasta dandogli la forma di tanti piccoli quadrati, li avvolse su una canna sottile, li sfilò e ne ricavò dei cilindretti di pasta forata. Li mise ad asciugare e nel frattempo iniziò a soffriggere in un tegame strutto, cipolla tritata, aglio e un po’ di sedano con carotine. Vi aggiunse un bel pezzo di carne che fece rosolare come una cuoca provetta, lo bagnò con vino rosso e, quando questo fu evaporato, ricoprì il tutto con una cascata di pomodori rossi passati al setaccio. Coprì il tegame e lasciò cuocere lentamente il tutto per tre ore.
Poco prima dell’ora di pranzo Giovannella calò nell’acqua bollente la pasta che aveva lasciato riposare per bene poi, dopo pochi minuti, la tirò su e la condì in una preziosa zuppiera con strati di la salsa e una cucchiaiata di parmigiano grattugiato. Guarnì il tutto con un bel ciuffo di basilico e consegnò la pietanza ad uno dei maggiordomi che subito portò la zuppiera fumante alla tavola del re.
Al re sembrò di non aver mai assaggiato nulla di più buono: “delizioso, squisito, divino!”
Così, riferirono i camerieri in cucina, Federico aveva definito il nuovo piatto, e alla fortunata Giovannella fu ordinato di recarsi a corte il giorno dopo. La donna si presentò al cospetto del re con un vistoso abito rosso e un’elaborata acconciatura, e nonostante le buone maniere non fossero il suo forte, fece un profondo inchino al sovrano. Il re si congratulò con lei per la sua abilità di cuoca e volle sapere come le fosse venuta l’ispirazione di creare quei piccoli cilindri di pasta conditi con una salsa così saporita: “maestà, un angelo mi è apparso in sogno e me ne ha svelato il segreto per prepararli” rispose Giovannella tenendo gli occhi bassi perché non si vedesse lo sguardo di trionfo.
“e ti ha anche detto come chiamare questo piatto?” “mi ha detto che vostra maestà gli avrebbe trovato un nome”
La risposta divertì il re, che decise di stare al gioco: “ci vorrebbe un nome capace di evocare la loro origine sovrannaturale e la gioia che danno a mangiarli. per esempio con derivazione dal greco macar-macaros che significa felice, beato” “come maccheroni?”, suggerì prontamente giovannella “e maccheroni siano” approvò il re dando alla donna un sacchetto di monete d’oro come ricompensa: “e ora va’ dal mio capocuoco e spiegagli per filo e per segno la ricetta”
A corte i maccheroni divennero una vera e propria moda. Nobili e dignitari di tutto il regno mandarono i loro cuochi a imparare la ricetta da Giovannella che, ormai di casa nel retrocucina del palazzo reale dove teneva le sue lezioni, divenne presto ricca poiché tutti la ricompensavano largamente. A Napoli tutti conobbero il nuovo piatto e non ci fu casa, sia ricca che povera, nella quale la domenica non si sentisse profumo di pasta al ragù.
Nel frattempo il povero mago, messi a punto finalmente i suoi maccheroni, se ne stava chiuso in casa a sperimentare i suoi sughi. Inventò tantissimi tipi di salse diverse: con pomodoro, aglio e basilico, quella cacio e uova, aglio olio e peperoncino, che praticamente sono i sughi con i quali i napoletani condiscono tutt’ora i mille tipi di pasta che da quei maccheroni originari derivano (tranne quella con le olive e i capperi che avrebbe inventato secoli dopo Totò); ma per quanto avesse perfezionato i suoi sughi, Chico non riuscì mai ad arrivare al sapore del ragù di Giovannella.
Maccheroni: una pasta reale per il popolo
Una mattina Chico uscì a prendere una boccata d’aria ma, giunto vicino al porto, sentì provenire da una basso un odore familiare, ma al contempo molto più ricco e armonioso di tutti quelli che conosceva: era proprio il profumo che avrebbe voluto sentire per i suoi maccheroni.
Al vecchio Chico sembrò di svenire, sperò che fosse un’allucinazione ma colto dall’ansia scostò la tenda ed entrò nella casetta: “che state cucinando?”, chiese alla donna che versava salsa nella zuppiera “maccheroni” chico continuò: “e chi ti ha insegnati a cucinarli?” “giovannella di canzio” “e a lei?” “un angelo, dicono. li ha preparati per il re e ora tutta napoli li mangia. vuoi assaggiarli?”
Chico rifiutò e per tutto il giorno sentì per la città sempre la stessa storia, anche al palazzo reale ebbe conferma del furto della sua invenzione. La sera il vecchio mago tornò nella sua stanzetta e bruciò tutte le pergamene, distrusse mobili, pentole e stoviglie, per poi partire senza lasciar traccia. La gente disse che se l’era portato via il diavolo ma Giovannella, in punto di morte, rivelò di aver rubato il segreto a Chico, anche se ormai troppo tardi perché gli fosse resa giustizia.
La notizia fece scalpore, anche se non stupì gli abitanti di vicolo dei Cortellari che, conoscendo Giovannella, non avevano mai creduto all’origine angelica dei maccheroni e trovarono molto più logica quella diabolica. In ogni caso, i maccheroni continuarono ad essere mangiati con lo stesso gusto di prima e la strana vicenda restò viva nella tradizione popolare, che nel frattempo ne diede vita ad una versione aggiornata: nelle notti di sabato, nella stanzetta al quarto piano, la stessa di Chico, il mago taglia ancora i suoi maccheroni, Giovannella prepara il ragù e il diavolo con una mano gratta il formaggio e con l’altra attizza il fuoco sotto la caldaia.