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19 Aprile, 2024

Clima: Il fallimento di Madrid e la nuova speranza



Madrid è fallita, la Cop 25 non ha generato nessun accordo condiviso, ma questa volta paradossalmente sono meno pessimista del solito. È la Cop di Greta. C’è poco da fare, questa giovane sedicenne è riuscita in un anno a fare quello che decine di gruppi ambientalisti non sono riusciti a fare in trent’anni. Chi la denigra sostiene che dietro ci sia chissà quale interesse e quale manovra di marketing, senza ricordarsi che è partita da sola, ogni venerdi, con il sole o con la neve, seduta davanti al Parlamento svedese per scioperare contro l’inerzia del potere nei confronti del cambiamento climatico.

Greta Thunberg è riuscita a mobilitare milioni di persone nel mondo, milioni di giovani che credono di poter essere il cambiamento, di poter fare il cambiamento, perché, come si diceva ovunque alla Cop25 di Madrid, non siamo più di fronte a un climate change, ma a un’emergenza climatica che richiede svolte radicali, rapide e incisive, completamente diverse da quell’approccio incrementale che ha caratterizzato 25 anni di accordi – o presunti tali – internazionali, che non hanno prodotto nulla, visto che le concentrazioni di gas serra in atmosfera sono al livello massimo nella storia dell’umanità.

Greta è riuscita a riaccendere una speranza di cambiamento, speranza che non vedevo dal lontano 1998, quando Bill Clinton, alla Cop4 di Buenos Aires firmava il protocollo di Kyoto, poi miseramente naufragato nelle tristi liti di condominio dei potenti del mondo. Sono poi passate tante altre Cop sostanzialmente interlocutorie, fino al 2015 a Parigi, quando una città ferita dal terrorismo, rilanciava la sfida globale al cambiamento climatico con accordi condivisi dalle maggiori economie del mondo. Sembrava ripartire la speranza, ma un anno dopo, a Marrakech, il circo che gravita intorno alla Cop si sveglia sotto choc, negli Stati Uniti il nuovo presidente è Donald Trump, che considera la lotta al cambiamento climatico un problema economico per il suo paese e annuncia di voler uscire dagli accordi di Parigi.
A Trump si accodano altri populisti che vedono nel breve termine l’unico orizzonte temporale del proprio mandato, senza capire che stiamo parlando di un’emergenza, non più di un problema a lungo termine, e le emissioni globali continuano a crescere.

L’Europa e la Cina si alleano per confermare gli impegni presi, la nuova Commissione europea e la Germania lanciano green new deals, ma sembra tutto lento e inadeguato.
Finché arriva Greta, arrivano i Fridays for future, arrivano moltitudini di giovani in ogni parte del mondo che protestano per salvare un pianeta che rischia di andare in fiamme.
A Madrid, oltre a Greta, i delegati meno impegnati nelle negoziazioni seguivano grandi vecchi come Harrison Ford, Al Gore o John Kerry, icone di una America che è “still in”, nonostante Trump.

I ricconi americani, sempre ipocondriaci, hanno identificato nelle colline della Nuova Zelanda la meta ideale per sfuggire ai cataclismi atmosferici e sociali che un cambiamento climatico significativo potrà avere sul mondo, tant’è che il governo neozelandese ha vietato l’acquisto di case agli stranieri. Ma se non vogliamo tutti andare in Nuova Zelanda, dove qualcuno si è già alzato a dire “prima i neozelandesi”, meglio ascoltare il mondo colorato della green zone (quella non istituzionale, meno blindata) della Cop di Madrid.

Un mondo che finora non ha forse raggiunto i risultati sperati (difficile mettere d’accordo tutti), ma che non per questo deve essere boicottato o deriso. Deve essere più ascoltato, perché deve diventare socialmente desiderabile un mondo più sostenibile. Un mondo attraversato da proteste sociali che non si vedevano da decenni: la Cop25 è a Madrid perché il Cile, paese organizzatore, non era in grado di garantire la sicurezza ai delegati provenienti da 200 paesi.

Le proteste per il clima sono pacifiche, giovani e colorate e propongono un nuovo modello di sviluppo; molti di quelli che seguono Greta non hanno competenze specifiche particolari, non si pongono domande su come salvare il pianeta, ma esigono che chi ha le redini del mondo faccia scelte coraggiose.
Scelte magari innovative, scelte che prediligano la riforestazione a improbabili cambiamenti di stili di vita di un mondo sviluppato che si è dimostrato incapace di cambiare realmente, stretto tra logiche di crescita senza senso e esigenze quotidiane comprensibili.
E allora proviamo a lanciare un grande piano per piantumare il mondo; se ci affidassimo alle piante, che hanno dimostrato una longevità e una capacità di adattamento che il genere umano neanche si immagina, ci affideremmo a esseri viventi straordinari, che ci risolverebbero il problema senza chiederci di cambiare radicalmente stile di vita.

Essere climate positive, vivere cioè con un bilancio climatico positivo, è la sfida che comincia a emergere a Madrid, che potrebbe essere ricordata non solo come l’ultimo fallimento di una ricerca di accordi internazionali che sempre più sembrano irraggiungibili, ma come il primo passo di vedere il problema del clima in modo diverso. Greta è personaggio dell’anno. Mi piacerebbe che l’anno prossimo sulla copertina di Time ci fosse un albero, secolare e maestoso, simbolo di chi potrà salvare il mondo e che, senza partecipare a conferenze in giro per il mondo è riuscito a sopravvivere e colonizzare il pianeta.



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